| Cercando Miguel
«Arriveterci» dice la simpatica donnona tedesca, facendoci un ampio cenno di saluto all'uscita. «Arrivederci!» rispondiamo insieme e lasciamo l'ostello che, per tre notti, è stato il nostro sogno berlinese. Sistemo meglio lo zaino sulle spalle e mi giro verso Giulia: «Si torna a casa.» La sua risposta è uno sbuffo. «Avanti, dimmi che saresti riuscita a mangiare un altro rivoltante salsicciotto senza vomitare!» dico, tirandole un pugno sulla spalla. Nulla. Questo viaggio è stata una pazzia. Tutto è nato dal nostro assurdo tentativo di scrivere un giallo a quattro mani ambientato a Berlino. E siccome la ricerca sul campo è fondamentale, abbiamo compresso il minimo di bagagli nello zaino più grande che potessimo portare e siamo partite. In treno. Senza sapere una parola di tedesco. «Insomma, volevi vedere Berlino e l'hai vista. Che vuoi di più?» «Voglio trovare Miguel.» Sospiro. Miguel è uno dei personaggi protagonisti del nostro romanzo. Giulia è fatta così, crea i personaggi e poi se ne innamora. Nella lista delle diciassette cose da fare a Berlino l'ultima, l'unica che non siamo riuscite a compiere, è questa. «Lo sapevi bene che era improbabile riuscire a trovarlo.» «Non abbiamo ancora lasciato Berlino» dice, e alza lo sguardo su di me. Conosco quello sguardo. Lo stesso che in quarta elementare, dopo aver studiato la presa della Bastiglia, mi rivolse dicendo: “E se facessimo una rivoluzione contro quelle di quarta B?” «E' fuori discussione. Il nostro treno parte fra due ore e noi dobbiamo raggiungere la stazione senza perderci.» Abbassa lo sguardo e borbotta qualcosa. Confesso che anch'io speravo di incontrare Miguel. Lo so, è stupido, ma è stupido anche partire da casa con un solo cambio di vestiti per affrontare la torrida estate berlinese. Mentre io giro e rigiro la carta della città cercando di capire che tram dobbiamo prendere – e in che direzione – lei continua a guardare fuori dal finestrino. Lo so che, fra le numerose teste bionde lei cerca una cascata di ricci neri, magari sfregati da una mano imbarazzata, possibilmente appartenenti ad un ragazzo con addosso una maglia della Spagna. «Ehi, Giulia» la chiamo e lei si volta. «Il fatto che non l'hai visto non significa che sia meno reale.» «Hai mai l'impressione che quello che scrivi poi ti accada sul serio?» mi chiede di rimando. Ed io, spiazzata, rispondo: «Sì, a volte. Un po' come è successo a Philip Dick.» «E dimmi, ti è mai capitato di scrivere qualcosa sperando che in tal modo accada?» Non rispondo e lei torna a guardare la città che stiamo per lasciare. La imito, imprimendo nella testa questi ultimi frammenti di Berlino che conserverò gelosamente nella memoria, fino a che non ritornerò. Scendiamo alla fermata giusta e alziamo lo sguardo sull'orologio della stazione. Abbiamo ancora un'ora, così decidiamo di cercare un negozietto e fare scorta di cioccolata dei gusti più strani, di quelli che in Italia neppure ci sognamo. «Ehi, Giulia, dici che la prendo questa al gusto di carota?» le chiedo, ma lei non risponde. Guarda incantata fuori dal negozio. «Giulia?» Poi accade tutto in fretta: posa tutte le tavolette di cioccolata che aveva in mano e corre fuori, in strada. La imito, cercando di non perderla di vista. «Ma che diavolo ti prende?» «Guarda» dice, puntando l'indice su un gruppo di gente. «E allora?» «Guarda» ripete. Annoiata obbedisco e – non credo ai miei occhi. Davanti a me, intendo a ballare per strada davanti ad un nutrito gruppo di passanti c'è un ragazzo dai capelli neri e ricci. A terra, vicino allo stereo, una maglietta sudata che porta i colori della Spagna. Giulia guarda davanti a sé come una che guarda un proprio sogno che, evanescente, ancora si aggrappa all'alba. Rimane immobile a fissarlo finché la musica non finisce e il ragazzo raccoglie il cappello e fa il giro per racimolare qualche spicciolo. «Beh, che aspetti?» le dico. Lei sembra svegliarsi da un lungo sonno e comincia a frugare nelle tasche come una pazza. Prende una moneta e si avvicina titubante a lui. Il ragazzo sembra scorgerla e si rivolge verso di lei. Giulia allunga la mano e lascia cadere la moneta nel cappello, con una rigidità tale da sembrare uno zombie. Il ragazzo fa un piccolo inchino. Poi le sorride e, facendole l'occhiolino, esordisce in un: «Muchas gracias, segñorita.» «D-di nulla» balbetta. Il ragazzo torna alle sue danze e noi ci avviamo verso la stazione. «E così abbiamo anche visto Miguel!» esclamo, e cerco di vedere se ora sorride. Lei si volta dall'altra parte. «Ehi, Giulia, ma non sei mica arrossita!?»
Il sorriso di quel ragazzo...non lo dimenticherò mai. Fu come se Berlino intera ci avesse fatto l'occhiolino. Come se quel gesto racchiudesse l'estate che andavamo cercando.
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